Donne e lavoro, il “gap” con gli uomini resiste

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Le donne sono più brave negli studi, si laureano di più, prendono voti più alti, ma hanno molte più difficoltà degli uomini a entrare nel mercato del lavoro, inoltre a parità di mansioni guadagnano meno, e per loro fare carriera all’interno di un’azienda è una strada in salita.

Lo certifica l’Inps, nel Rendiconto di genere diffuso nei giorni scorsi, con la premessa che «sono ancora rilevanti le condizioni di svantaggio delle donne nel nostro Paese, nell’ambito lavorativo, familiare e sociale».

Si chiama “Gender Pay Gap”: le donne percepiscono stipendi inferiori di oltre venti punti percentuali rispetto ai colleghi. In particolare, fra i principali settori economici, la differenza è del 20% nelle attività manifatturiere, del 23,7% nel commercio, del 16,3% nei servizi di alloggio e ristorazione, del 32,1% nelle attività finanziarie, assicurative e servizi alle imprese.

Appena il 21,1% dei dirigenti è donna, mentre tra i quadri il genere femminile rappresenta solo il 32,4%.

Nel 2023, il tasso di occupazione femminile in Italia si è attestato al 52,5%, rispetto al 70,4% degli uomini. Inoltre, le assunzioni femminili hanno rappresentato solo il 42,3% del totale, e solo il 18% è a tempo indeterminato, contro il 22,6% di quelle maschili.

Le lavoratrici con un contratto a tempo parziale sono il 64,4% del totale e anche il part-time involontario è prevalentemente femminile (15,6% degli occupati, rispetto al 5,1% dei maschi.

Per quanto riguarda l’istruzione, nel 2023 le donne hanno superato gli uomini sia tra i diplomati (52,6%) sia tra i laureati (59,9%), ma questa superiorità nel percorso di studi non si traduce in una maggiore presenza nelle posizioni di vertice nel mondo del lavoro – sottolinea l’Inps.

Le donne continuano a farsi carico della maggior parte del lavoro di cura. Nel 2023, le giornate di congedo parentale utilizzate dalle donne sono state 14,4 milioni, contro appena 2,1 milioni degli uomini.

Il lavoro precario, con interruzioni obbligate, e non di qualità si riflette ovviamente sulle pensioni: in Sardegna una ex lavoratrice dipendente prende circa 881 euro, il suo ex collega 1.331 euro. Chi è uscito dal Pubblico impiego, 1.815 e 2437 euro; gli autonomi 668 euro le donne e 906 gli uomini. In sostanza: per le prime, lavoro più precario, discontinuo, non di qualità e scarsi contributi.

«La situazione è preoccupante», avverte Diletta Mureddu, sindacalista della Cgil e presidente del Comitato provinciale Inps di Cagliari. «Con regolarità ogni anno constatiamo questo “gap”, dunque le misure di conciliazione e le politiche strutturali o non vengono attuate o non sono assolutamente adeguate. Oltre al fatto che c’è radicata un’idea della donna portata geneticamente all’assistenza, dei bambini, degli anziani e dei familiari malati, e per questo deve fare rinunce in ambito professionale. La politica interviene con i bonus, cioè contributi del momento, che non incidono nel medio e lungo periodo. Se si dà un aiuto a una donna per conciliare vita e occupazione, e poi non le si dà stabilità e indipendenza a livello lavorativo, tutto diventa vano».

Ancora: «Le donne prendono uno stipendio più basso, anche a parità di ruolo, perché solitamente dopo la maternità fanno meno straordinari e prendono più congedi parentali, spesso scelgono anche il part-time e chiaramente questo comporta una busta paga più leggera».

Inoltre – prosegue – «all’interno di un’azienda l’uomo fa più carriera, sia perché il mercato del lavoro ha ancora un’impronta maschilista, sia perché un datore di lavoro preferisce investire sugli uomini, che si assentano meno delle donne. Purtroppo la competenza è valutata in base alla quantità di ore che uno trascorre in ufficio, non su quello che fa realmente. Chi sta dieci ore al giorno alla scrivania, anche se le trascorre guardando le partite o giocando ai videogame, è considerato più “meritevole” di chi arriva al risultato velocemente e se ne va a casa il più presto possibile».

Secondo Roberto Ghiselli presidente del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps, «affrontare il problema delle discriminazioni di genere significa agire su tutte le dimensioni del problema, che riguardano il mercato del lavoro e i modelli organizzativi nel lavoro, la rete dei servizi, la dimensione familiare e quella culturale. Viene pertanto chiamata in causa la responsabilità e l’impegno di tutti gli attori istituzionali, politici e associativi per far sì che i timidi passi avanti che si sono registrati in questi anni, diventino al più presto l’affermazione di una piena condizione di parità, rimuovendo gli ostacolo che ne sono di impedimento».

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