Posso criticare il mio datore di lavoro online senza rischiare il licenziamento?

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La Cassazione ha stabilito che i dipendenti hanno il diritto di criticare la propria azienda online, purché le critiche non siano volgari o diffamatorie e siano legate a un interesse legittimo, come le condizioni di lavoro.

Sei davanti a una tastiera, le dita pronte a riversare online il tuo malcontento verso l’azienda in cui lavori. Un gesto oggi comune, quasi istintivo, ma che può trasformarsi in un campo minato di conseguenze legali. In un’epoca dove il confine tra vita professionale e personale si fa sempre più labile, dove ogni “mi piace” e ogni commento può rimbalzare all’infinito nel web, la domanda sorge spontanea: fino a che punto possiamo spingerci con le nostre critiche senza rischiare il posto? Posso criticare il mio datore di lavoro online senza rischiare il licenziamento? Una domanda che si è posta anche la Corte di Cassazione, chiamata a dirimere una controversia nata da un post tanto lapidario quanto controverso, pubblicato su Google My Business: “perdete ogni speranza…”. Parole che hanno scatenato un licenziamento, ma che hanno anche aperto un dibattito fondamentale sul diritto di critica dei lavoratori nell’era digitale. Un dibattito che ci porta a riflettere sui limiti di questo diritto, sui toni e le parole che possiamo usare, e su come bilanciare la libertà di espressione con la tutela della reputazione aziendale. Un viaggio nel cuore di una sentenza che ha riscritto le regole del gioco e che ci riguarda tutti.

Quali sono i limiti del diritto di critica al datore di lavoro?

Posso criticare il mio datore di lavoro online senza rischiare il licenziamento? La risposta, come spesso accade nel diritto, non è un semplice sì o no. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5331/2025, ha ribadito che il diritto di critica dei dipendenti è tutelato dall’articolo 21 della Costituzione (che garantisce la libertà di manifestare il proprio pensiero), dall’articolo 10 della Cedu e dall’articolo 1 dello Statuto dei lavoratori. Tuttavia, questo diritto non è illimitato: esso va conciliato con la tutela dell’onore, della reputazione e del decoro del datore di lavoro, beni protetti dall’art. 2 della Costituzione.

Pertanto la critica deve rispettare le seguenti condizioni:

  • continenza formale: le critiche devono essere espresse con un linguaggio corretto e misurato, evitando toni volgari o diffamatori. Non sono ammesse espressioni volgari, offensive o denigratorie;
  • continenza sostanziale: le critiche devono basarsi su fatti veri, intesi in senso soggettivo o ragionevolmente ritenuti tali, non su invenzioni o calunnie. Se si attribuiscono al datore di lavoro comportamenti non veritieri, si supera questo limite (Cass. sent. n. 31395/2019, n. 35922/2023, n. 16786/2020);
  • pertinenza: le critiche devono essere rilevanti e legate a un “interesse meritevole di tutela”, come le condizioni di lavoro, la sicurezza o il trattamento dei dipendenti.

L’interesse meritevole di tutela è un concetto ampio che comprende tutte le situazioni in cui il lavoratore ha un legittimo interesse a esprimere la propria opinione. Alcuni esempi possono essere:

  • condizioni di lavoro insoddisfacenti o pericolose;
  • comportamenti discriminatori o vessatori;
  • irregolarità nella gestione aziendale o nel pagamento degli stipendi;
  • minaccia di licenziamenti;
  • riduzione dell’orario di lavoro;
  • trasferimenti immotivati;
  • mancanza di rispetto dei diritti dei lavoratori.

Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto che l’espressione “perdete ogni speranza…”, pur essendo forte e evocativa, non può essere considerata di per sé diffamatoria. E non lo è neanche se il dipendente ha accompagnato tale frase con una recensione negativa, dando una stella su cinque all’azienda.

La Corte ha sottolineato che la critica è per definizione espressione di dissenso e disapprovazione, e può anche consistere in uno sfogo o in una manifestazione di disillusione. L’importante è che la critica sia espressa in modo non volgare e sia legata a un interesse legittimo.

Quando una critica può essere considerata “volgare o infamante”?

La volgarità o l’infamia di una critica non possono essere valutate solo in base alle immagini che essa evoca, specialmente se si tratta di citazioni letterarie o culturali. Occorre invece valutare il significato concreto della critica, al di là delle metafore o delle similitudini utilizzate. Ad esempio, l’utilizzo di un linguaggio osceno o di insulti personali sarebbe considerato volgare e diffamatorio.

Il datore di lavoro può licenziare un dipendente per una recensione negativa online?

Il datore di lavoro può licenziare un dipendente per una recensione negativa online solo se quest’ultima supera i limiti del diritto di critica, cioè se è volgare, diffamatoria o non pertinente. In caso contrario, il licenziamento sarebbe illegittimo.

Esempi pratici

Esempio di critica legittima:

“Le condizioni di lavoro in questa azienda sono inaccettabili. Non vengono rispettate le norme di sicurezza e i dipendenti sono sottoposti a stress costante”.

“Ritengo che l’organizzazione del lavoro possa essere migliorata per aumentare l’efficienza e il benessere dei dipendenti”.

Esempio di critica illegittima:

“Il mio capo è un incapace e un ladro”.

“Questa azienda è gestita da criminali”.

“Ci sfruttano, non ci pagano e ci fanno lavorare come schiavi”.

Conseguenze del superamento dei limiti

Se la critica supera i limiti della continenza sostanziale e formale, può costituire un illecito disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa.

La giurisprudenza ha affermato che l’esercizio del diritto di critica non può ledere l’onore e la reputazione del datore di lavoro con espressioni offensive o attribuzioni di fatti non veri. In caso contrario è legittima la risoluzione del rapporto di lavoro senza preavviso.

L’uso dei social network amplifica la diffusione delle critiche e richiede particolare attenzione. Difatti la condotta del dipendente, oltre a integrare un illecito disciplinare, può essere anche passibile di querela per diffamazione aggravata. Pertanto l’azienda potrebbe chiedere il risarcimento dei danni costituendosi parte civile nel processo penale.



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