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Con il suo articolo di sabato scorso sul settimanale Milano Finanza il direttore Roberto Sommella ha acceso in maniera puntuale i riflettori sul Danish Compromise e sullo scenario che stiamo vivendo. Le recenti ops tra banche italiane evidenziano, in un contesto di attesa riduzione dei tassi di interesse, l’obiettivo di preservare i livelli di redditività osservati negli ultimi anni attraverso un incremento dell’efficienza operativa attraverso una riduzione dei costi, nonché l’ampliamento dell’offerta alla clientela e una ricomposizione del business a favore di attività fee based, attraverso l’internalizzazione delle «fabbriche prodotto», in primis legate ai business assicurativo e di risparmio gestito. In questo contesto assume particolare rilevanza la decisione che le autorità di vigilanza saranno chiamate a prendere circa la conferma o meno per gli istituti bancari che hanno promosso delle ops di poter beneficiare del Danish Compromise e delle sue recenti evoluzioni.
Che cos’è il Danish Compromise
Il Danish Compromise è una disciplina regolamentare prevista dagli artt.49 e 471 del Capital Requirements Regulation (Crr), approvato dall’Ue nel 2012 con la presidenza della Danimarca (da qui deriva la denominazione). Stabilisce la possibilità per le banche che detengono partecipazioni dirette nelle imprese assicurative di ridurre il requisito di capitale regolamentare, evitando un double counting.
Lo spirito della normativa, che inizialmente aveva carattere temporaneo, era quello di introdurre un nuovo strumento finalizzato ad agevolare la formazione di conglomerati finanziari permettendo agli istituti di credito di estendere il consolidamento, non solo all’interno del mercato bancario, ma anche ad altri settori finanziari, come quello assicurativo. Nell’ottobre 2021 la Commissione Europea ha presentato una proposta che, attraverso modifiche agli artt. 49(4) e 133(3) del Regolamento Crr e un sistema di rimandi incrociati non di immediata intellegibilità, prevede di trasformare in permanente l’impianto regolamentare del Danish Compromise.
Qual è il vantaggio derivante dall’applicazione di questa norma? Senza il Danish Compromise, una banca che detiene una partecipazione in un’impresa di assicurazione deve dedurre il valore di tale partecipazione dal proprio capitale ai fini del calcolo del Cet1 (cosiddetto Deduction Method). Applicando invece il Danish Compromise, la partecipazione non viene dedotta dal capitale, ma sul valore di tale partecipazione viene applicato un fattore di rischio («ponderazione»). Il vantaggio sta nel fatto che il fattore di ponderazione è un coefficiente che varia dal 370% al 250%, inferiore a quello implicito nella deduzione della partecipazione dal capitale (ad esempio se il Cet1 ratio fosse del 13%, il fattore di ponderazione equivalente sarebbe intorno al 770%).
Inoltre, l’Eba ha fornito una interpretazione secondo cui gli avviamenti derivanti da acquisizioni effettuate attraverso le compagnie assicurative controllate da capogruppo bancarie di conglomerati finanziari possono essere ponderati e non dedotti dal capitale di vigilanza consolidato, rendendo i benefici del Danish Compromise applicabili anche al business di risparmio gestito che le banche detengono per il tramite delle loro unità assicurative.
Per incentivare la bancassurance
Queste modifiche costituiscono ulteriore incentivo all’adozione del modello di business bancassurance basato sull’internalizzazione dell’attività assicurativa attraverso imprese assicurative captive, a svantaggio di quelli basati su partnership distributive spingendo le attività di m&a che vediamo sul mercato in questi giorni. Il contesto attuale, tuttavia, presenta dei punti di attenzione. Per poter applicare il Danish Compromise le banche devono infatti ottenere specifica autorizzazione da parte della Bce (o dell’autorità nazionale per le banche più piccole), dimostrando il rispetto di diversi requisiti, tra cui in particolare robusti presidi di risk management integrato all’interno del conglomerato finanziario, ivi inclusa la componente del business assicurativo.
Inoltre il fatto che la regolamentazione finanziaria incentivi il consolidamento tra soggetti operanti nei settori del credito, della gestione del risparmio e della assicurazione è senza dubbio un elemento positivo. Questo obiettivo però non deve essere realizzato generando disparità di trattamento tra le differenti tipologie di imprese presenti sul mercato o a discapito di un’adeguata solidità patrimoniale e resilienza del settore bancario.
Gli elementi che le autorità di Vigilanza dovranno considerare riguardano sia l’adeguatezza prospettica delle consistenze patrimoniali delle banche che hanno promosso ops fattorizzando potenziali benefici derivanti dal Danish Compromise, sia le misure da adottare per evitare che si instaurino asimmetrie di trattamento tra industria bancaria e industria assicurativa.
Una mancata uniformità di trattamento che dovesse favorire il settore bancario farebbe sì che le banche non siano più percepite come partner delle compagnie assicurative, ma come concorrenti diretti con possibili risvolti anche sull’onerosità delle commissioni a carico dei clienti. Laddove l’effettiva applicabilità del regime di Danish Compromise con le recenti aperture ed interpretazioni incontrasse degli ostacoli nel percorso autorizzativo rispetto alle aspettative del momento, l’attivismo dei principali player dell’industria bancaria potrebbe subire una frenata? (riproduzione riservata)
*Deloitte
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