Discorso pubblico deportato – La Ragione

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Crescita, investimenti, fattore umano e frontiere. A un certo punto ci si dovrà pur rendere conto che conta la realtà e non la sua ‘narrazione’, si dovrà pur capire che il ‘percepito’ diventa reale nelle sue conseguenze ma è quasi sempre un frainteso. Nelle democrazie europee il discorso pubblico è stato deportato nel reparto delle suggestioni e riportarlo alla realtà serve anche a restituire alle politiche una dignità che le propagande non hanno.

Siamo fermi. Non si tratta di arrampicarsi fra gli zerovirgola, ma di prendere atto che senza i fondi europei del Pnrr saremmo in recessione, come la Germania, e che non basta affatto spenderli per compensare il negativo, perché si deve spenderli per modificare infrastrutturalmente la capacità di competere e crescere. E qui siamo nel buio. Nei mille decreti milleproroghe ci sono anche i brevetti dei bagnini: manco quelli si riesce a rinnovare in modo regolare e per tempo, mentre ancora si discute di taxi e Ncc. Buio pesto.

I tassi d’interesse sono bassi, inferiori a quelli statunitensi e inglesi, eppure le imprese prendono poco a prestito. Si guarda sempre ai mutui, perché oramai ragioniamo da possidenti consumatori, ma per restarlo si deve essere anche produttori. Prendono poco perché non conta soltanto il tasso d’interesse, ovvero quanto costa il denaro, ma pesa il tasso di crescita, ovvero quanto penso possa rendermi. Per schiodare il fermo servono gli attori privati, le imprese: puoi dare il denaro a poco e puoi elargire bonus ed esenzioni, ma se poi l’energia costa il doppio che in altri Paesi, il fisco drena troppi quattrini e i lavoratori lamentano d’essere pagati poco – laddove per l’impresa il costo del lavoro è superiore a quello che pagherebbero altrove – il risultato è che scompaiono qui per riapparire colà.

Lo fanno anche le persone e mentre noi si straparla di quelli che entrano ci si perde il senso di quelli che escono: 100mila giovani italiani nel 2022-2023. Perché sono disoccupati? No, perché cercano di essere meglio formati e occupati. E fanno benissimo, la loro libertà è una delle conquiste dello spazio comune Ue ed è una frontiera rotta con la globalizzazione. Il problema non sono quelli che vanno ma quelli che non arrivano, perché le persone di qualità non vengono in Italia per la stessa ragione per cui gli italiani se ne vanno: non si cresce; non si ottengono posizioni e soldi in ragione delle proprie capacità; investire e fare impresa è una sfida più di carta che di mercato.

Disoccupati non sono, perché soltanto nel commercio si lamentano 258mila posti di lavoro scoperti. Pesa eccome la denatalità, ma pesa anche l’idea che certi lavori non vale la pena farli. E sono quegli stessi lavori con cui molti immigrati non solo si mantengono, ma mandano i risparmi a casa. Ma basta citarli perché i forsennati del ‘percepito’ perdano la testa. Si dividono in chi vuole abbracciarli e chi vuole cacciarli, ma si uniscono nel non gestirli. Nel click day del 2023 si sono previsti 131.850 ingressi regolari. Vuol dire che c’erano l’esigenza e la disponibilità, tutto regolare. A dicembre 2024 soltanto 37.790 avevano ottenuto il visto, il 28%. Su 278mila posti regolari previsti dal piano triennale a scadenza 2024, i visti sono stati 62mila. Arrivano quelli che non si desiderano e non quelli che si chiamano. Difficile darne la colpa a loro.

Ma niente, invece di affrontare la questione in modo razionale – assodando che nessuno ha alcuna soluzione permanente, che i rimpatri si sono sempre fatti e che se ora li mostra anche la sinistra inglese è solo per inseguire il ‘percepito’ e che gli immigrati servono; quindi si deve lavorare sul controllo dell’ordine pubblico e della sicurezza (serve giustizia che funzioni), si deve operare con la formazione e si deve evitare la concentrazione – siamo ancora al fesso scontro su deportazioni che non sono né saranno risolutive di niente. E manco esistono.

A un certo punto ci si accorgerà di quanto sia autolesionista lo scucuzzarsi fuori tema.

Di Davide Giacalone





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